Consulenza indipendente: un servizio per tutti?

Pubblicato il 16/06/2016 - Emanuele Carluccio
Siamo certi che tutta la clientela oggi raggiunta dal servizio di consulenza possa avere le caratteristiche per costituire il target ideale di un servizio di consulenza offerto su base indipendente?

Il dibattito che si è scatenato all’indomani dell’emanazione della nuova Direttiva relativa ai mercati degli strumenti finanziari (la c.d. MiFid 2) sembra essersi sinora incentrato prevalentemente, se non esclusivamente, sulla quella parte della sezione 2 (Disposizioni volte a garantire la protezione degli investitori) dedicata alla distinzione, all’interno del servizio di consulenza in materia di investimenti, tra la consulenza servita su base indipendente e la consulenza tout court.   Più precisamente, dal momento che la Direttiva chiarisce che “Quando l’impresa di investimento informa il cliente che la consulenza in materia di investimenti è fornita su base indipendente, essa:

  1. valuta una congrua gamma di strumenti finanziari disponibili sul mercato, che devono essere sufficientemente diversificati in termini di tipologia ed emittenti o fornitori di prodotti da garantire che gli obiettivi di investimento del cliente siano opportunamente soddisfatti e non devono essere limitati agli strumenti finanziari emessi o forniti dall’impresa di investimento stessa o da altre entità che hanno con essa stretti legami o rapporti legali/economici tali da comportare il rischio di compromettere l’indipendenza della consulenza prestata;
  2. non accetta e trattiene onorari, commissioni o altri benefici monetari o non monetari pagati o forniti da terzi”.

Sono sufficienti questi caratteri distintivi per poter dare per scontato che la consulenza servita su base indipendente sia, per definizione, “migliore” di quella non servita su base indipendente? In altre parole, siamo certi che nello spirito del legislatore vi sia l’intento di individuare un servizio di eccellenza da contrapporre a quello più “di base”? E soprattutto, siamo certi che tutti gli operatori attivi oggi sul mercato della consulenza siano nelle condizioni (vuoi per competenze richieste, vuoi per vincoli di conto economico) di poter fare questo passaggio alla consulenza indipendente? E, infine, siamo certi che tutta la clientela oggi raggiunta dal servizio di consulenza possa avere le caratteristiche (non solo di competenze in campo finanziario ma anche, e soprattutto, di dimensioni minime del portafoglio) per costituire il target ideale di un servizio di consulenza offerto su base indipendente? Questi sono gli interrogativi ai quali il presente contributo si pone l’obiettivo di dare (o almeno provare a dare) una risposta.

È indubbio che, su base assolutamente astratta, un servizio di consulenza che ha per oggetto la gamma più ampia possibile di prodotti di risparmio gestito e di strumenti di risparmio amministrato e ha come modalità di remunerazione la fee di consulenza pagata direttamente dal cliente, senza alcun (ulteriore) rebate offerto al consulente/distributore da parte delle società prodotto (in modo tale che, così, il rischio di un possibile conflitto di interessi venga del tutto eliminato) si presenta agli occhi del destinatario finale come il servizio “migliore” che gli possa essere offerto.  

È altresì innegabile che in un servizio di consulenza cosi impostato è abbastanza probabile che prevalgano prodotti di risparmio gestito a costo contenuto (fondi passivi e/o ETF) e una serie di investimenti diretti in titoli (in primis obbligazioni governative e corporate) in modo tale che la advisory fee richiesta al cliente non venga a sommarsi ad un portafoglio sottostante già caricato di costi elevati in termini di management fee sui singoli prodotti. Penso sia altrettanto indubbio dover ammettere, però, che questo nuovo mix di competenze e di prodotti/strumenti funziona solo a condizione che il consulente/distributore riesca a farsi carico di tutta quella serie di analisi e di valutazioni che sono embedded nei fondi più attivi (e non a caso più costosi) sia per l’attività di stock/bond/fund picking, sia per l’attività di market timing.

Dall’analisi di alcuni portafogli già oggi in consulenza “fee only”, infatti, emerge spesso una assoluta staticità nella composizione del portafoglio (il che equivale ad una rinuncia implicita al market timing), sia una pericolosa concentrazione su pochi strumenti di risparmio amministrato (il che espone ad un elevato rischio di mancata diversificazione acuito dalla eventuale scarsa competenza nella valutazione e nel conseguente picking dei singoli strumenti).

Laddove, invece, la società/lo studio di consulenza “a parcella” fosse in grado di garantire il presidio dell’intera catena del valore del servizio di consulenza che va dalla profilatura del cliente, alla costruzione del/i portafoglio/i strategici adatti alle sue esigenze, alla manutenzione tattica di questo/i portafoglio/i, alla selezione dei gestori/prodotti/strumenti da consigliare al cliente, al monitoraggio degli stessi nel tempo, al risk management della posizione complessiva a livello di portafoglio e alla rendicontazione/scomposizione della performance (tutte attività, queste, che difficilmente il singolo consulente può svolgere in assoluta autonomia), allora il mix dato da un presidio metodologicamente robusto di queste attività e dal ricorso a prodotti di elevata qualità (passivi sui mercati efficienti, attivi sui mercati ad elevato potenziale di alpha)  sulle diverse asset class, può effettivamente costituire una soluzione vincente.

Ma sia l’offerta, sia la domanda sono pronte ad un passaggio di questo tipo?

Dal punto di vista dell’offerta è indubbio, a parere di chi scrive, dover ammettere che la soluzione della consulenza su base indipendente potrà costituire un servizio a quasi totale/esclusivo appannaggio o delle realtà di nicchia (family office e sim di consulenza con clientela di fascia alta) oppure delle realtà di private banking all’interno o di reti di promotori o di banche commerciali. Per la clientela sia affluent sia, e a maggior ragione, retail tipica della parte preponderante delle reti di promotori e, ancor di più, delle banche commerciali questa soluzione apparirà ben presto del tutto impraticabile.

Non solo perché è impensabile, soprattutto in una fase di mercato quale l’attuale, caratterizzata da una bassissima redditività della tradizionale attività di raccolta e impieghi, poter mettere a rischio l’importante contributo al margine da servizi offerto dai rebates sui prodotti oggetto di collocamento nell’ambito del servizio di consulenza agli investimenti ma anche perché le dimensioni medie del portafoglio di questo tipo di clientela non sono in grado di giustificare un servizio tailor made che, in quanto customizzato, presuppone non solo un personale decisamente qualificato ma anche un dispendio di energie e di tempo ben superiore a quello normalmente richiesto per una buona attività di collocamento. In modo ancora più concreto, se è vero, come sembra si registri sul mercato, che le fee di consulenza possano oscillare, in funzione delle dimensioni del portafoglio e del relativo grado di complessità, da un minimo di 50 sino ad un massimo di 150 basis points sulle masse sotto advisory, dovrebbe risultare evidente che portafogli di dimensione inferiore ai 250.000 €uro (se non addirittura ai 500.000 €uro) difficilmente potranno essere presidiati con un servizio su misura di consulenza su base indipendente.

Ma questo significa necessariamente che la clientela affluent e retail è destinata ad essere trattata come clientela di serie B? Oppure, in modo equivalente, questo significa che il servizio di consulenza di base, ancora imperniato sulla remunerazione dell’attività svolta mediante il consolidato meccanismo dei rebates sui prodotti collocati debba per definizione essere considerato un second best? 

Assolutamente no, soprattutto se si tiene in considerazione quanto la Direttiva recita ai punti 2 e 9 dell’art. 24 (Principi di carattere generale e informazione del cliente). “Le imprese di investimento che realizzano strumenti finanziari per la vendita alla clientela fanno sì che tali prodotti siano concepiti per soddisfare le esigenze di un determinato mercato di riferimento di clienti finali individuato all’interno della pertinente categoria di clienti e che la strategia di distribuzione degli strumenti finanziari sia compatibile con il target. L’impresa di investimento adotta inoltre misure ragionevoli per assicurare che lo strumento finanziario sia distribuito ai clienti all’interno del mercato target”. “Gli Stati membri provvedono affinché le imprese di investimento non siano considerate in regola con gli obblighi loro incombenti (…) qualora paghino o percepiscano un onorario o una commissione o forniscano o ricevano benefici non monetari in relazione alla prestazione di un servizio di investimento a o da parte di un qualsiasi soggetto diverso dal cliente, a meno che i pagamenti o i benefici abbiano lo scopo di accrescere la qualità del servizio fornito al cliente e non pregiudichino il rispetto del dovere dell’impresa di investimento di agire in modo onesto, equo e professionale nel migliore interesse del cliente”.

In  considerazione, quindi, dei nuovi requisiti imposti in termini sia di product governance, sia di trasparenza (soprattutto in materia di costo complessivo del servizio) al cliente, è lecito attendersi che anche l’attività di collocamento possa registrare dei notevoli passi in avanti arrivando ad offrire al cliente, embedded nel prodotto collocato, quello stesso servizio articolato in più fasi che poco fa venivano evidenziate come tappe cruciali di un buon servizio di consulenza su base indipendente.

È auspicabile, in altri termini, che a quella clientela retail ed affluent non destinataria della consulenza a parcella le imprese di investimento sappiano comunque indirizzare un servizio che, nonostante in forma più standardizzata, proponga comunque in modo mirato, ai diversi cluster di popolazione servita (individuati soprattutto in funzione della diversa propensione al rischio e del diverso orizzonte temporale di riferimento), prodotti compositi (fondi di fondi, polizze a contenuto finanziario, unit linked) all’interno dei quali far confluire quelle attività di asset allocation strategica, asset allocation tattica, selezione dei gestori in una logica multimanager e multistyle, controllo del rischio e scomposizione della performance che sono e restano i driver del vero valore aggiunto da proporre al cliente.  

  

Da Emanuele Carluccio Professore ordinario di Economia degli Intermediari Finanziari all'Università di Verona - Docente senior della Sda Bocconi School of Management di Milano.